I liceali del 2020 passeranno alla storia come una delle generazioni forse più sfortunate: a causa del covid-19 non hanno potuto vivere le ansie e le gioie degli anni più belli dell’adolescenza, dovendosi accontentare di un surrogato di scuola vissuta dallo schermo di un computer. Cosa si prova ad aver vissuto il liceo a distanza? La testimonianza di Luigi Nicolosi, studente del Liceo Nicola Spedalieri di Catania, e la sua lettera sulla "(r)esistenza di uno studente nel 20". «Quando ho scritto la lettera non l'ho fatto per renderla pubblica, in fin dei conti non pensavo potesse interessare a qualcuno. Senza un motivo reale, mi sono seduto alla scrivania, ho impugnato la mia penna ed ho iniziato a scrivere raccontando ciò che ho provato da liceale, da studente, da ragazzo durante l'annus horribilis 2020. La DaD che per molto tempo è stata sbandierata come valida alternativa alla didattica in presenza non è altro che un suo surrogato. La scuola non può e non deve essere intesa unicamente come luogo deputato all'apprendimento del sapere, è molto di più. Proprio questo "più", viene spazzato via dalle webcam e dagli schermi dietro i quali siamo relegati ogni giorno. La gioia di stare in classe, i sorrisi anche sotto delle mascherine, lo scherzare e parlare guardandosi negli occhi, ecco tutto questo non esiste più. Sarei un folle ad anteporre queste problematiche alla pandemia, conscio del fatto che nel primo lockdown la chiusura delle scuole è stata inevitabile ed ha salvato tante vite. Ma oggi mi chiedo se sia stato davvero fatto tutto il possibile per non renderla di nuovo necessaria o se forse quest'estate si sia preferito pensare ad altro, sia a livello regionale che nazionale, piuttosto che potenziare i trasporti e garantirci un rientro in sicurezza. Onestamente non so quali potrebbero essere le conseguenze nel lungo termine di questa situazione ma sono certo di ciò che comporta ora: solitudine. Questo è ciò che sento e che sentono molti miei compagni». La (r)esistenza di uno studente nel 20 può essere riassunta con due parole: solitudine e speranza. Soli senza voler essere solitari, speranzosi senza sapere il perché. Viviamo in un paese che cannibalizza i propri figli, non tramite gesti particolari ma, più semplicemente, relegandoli alla marginalità. Cresco in un’Italia in cui i politici, i partiti, le istituzioni non guardano più a noi se non i rari casi di strabismo. Siamo definiti la generazione degli addormentati, dei pigri, dei senza valori. A volte sono arrivato anche a chiedermi se, forse, abbiano ragione. Dentro di me sento dei vuoti: i miei anni, quelli che tutti ricordano con nostalgia, mi vengono strappati con la stessa violenza di un lupo che scarnifica la sua preda. Non vi è nulla a cui aggrapparsi, non vi è qualcuno in cui riconoscersi, non vi è una qualche personalità dalla quale sentirsi rappresentato. Il 20 più che un anno è stato la decima cerchia: la chiusura, l’angoscia, la solitudine, i morti, l’esplosione di entusiasmo per le prime lezioni in DAD disinnescata immediatamente dalla constatazione che quella non fosse neanche lontanamente scuola. E poi l’estate, la speranza, il rientro a scuola, i sorrisi sotto le mascherine seguiti però, in cauda venenum, come fosse la trama di uno dei grandi poemi dell’antichità in cui la fine riprende i fatti iniziali, con un percorso che sembra un cerchio, dal ritorno al punto di partenza. E di nuovo a casa, guardando delle webcam come fossero occhi ed uno schermo come fosse un corpo. È vero noi non moriamo di Covid, ma i nostri cari sì. Oltre alle ordinanze, ai decreti, ciò che angoscia di più è la paura. Il terrore di fare da tramite tra il virus e le persone a noi vicine. Questo non significa solo banalmente non poter andare ad una festa o in discoteca, non vedere i propri amici e compagni. Purtroppo tutto ciò fa avere timore del luogo che fino a ieri consideravamo seconda casa: le nostre scuole. Tante volte sentiamo proclami su come queste siano sicure, come non siano veicoli di contagio, ma sappiamo tutti qual è la nostra Teutoburgo: i trasporti. Io non ho un mezzo, non ho genitori che possano portarmi a scuola e dunque come molti miei compagni mi affido al trasporto pubblico che, in era covid, significa giocare alla roulette russa: uno starnuto da un lato ed un colpo di tosse dall’altro, la distanza interpersonale pari a quella di una cozza al suo scoglio favoriscono la nascita, anche nei più temerari, di sentimenti alquanto ipocondriaci. Ma alla fine per tanti, per troppi, noi siamo solo gli untori sconsiderati e dunque nessuno parla di tutto questo. Sotto l’emergenza se ne cela una più sottile e difficile da captare ed è quella che riguarda noi ragazzi. Sarebbe da sconsiderati anteporre questi problemi al contagio del virus ma mi sembra lecito chiedere: è stato veramente fatto tutto il possibile per provare a tenere le scuole aperte? È veramente la scelta giusta illuderci di mese in mese sbandierando una riapertura che però non arriva mai. Spesso noi giovani veniamo apostrofati come “il futuro della società”, ma io, con tutto il rispetto, vorrei rappresentarne anche il presente. Questa la lettera di Luigi Nicolosi: