Oggi 25 settembre ricorre il settantesimo anniversario della scomparsa del grande scrittore Vitaliano Brancati (nella foto alla villa Bellini in compagnia della figlia Antonia), un catanese d’adozione, che amò molto la nostra città e dove visse, forse, i migliori anni della sua vita.
Era nato a Pachino il 24 luglio del 1907, l’Italia era governata dal terzo ministero Giolitti, il padre aveva 28 anni, di professione avvocato. In questo paesino visse i primissimi anni della sua fanciullezza e vi fece ritorno molto di rado, perciò non ne parla quasi mai.
Ma cosa scrive Brancati su Pachino: “Il paese domina Capo Passero e vede il mare a Oriente, poi a sud,e infine a occidente, come se due grandi specchi lo riflettessero; il caldo dell’Africa e il freddo dell’Europa si azzuffano e si rincorrono con molto rumore, cedendo or l’uno or l’altro; nelle notti di vento e di luna la polvere dalle strade e stradette che son tutte prive di selci e, riunendosi in alto, stampa in cielo un enorme fantasma…”.
I frequenti trasferimenti del padre lo portarono prima a Spaccaforno (oggi Ispica), poi a Modica, a Pozzallo e poi ancora a Modica: una serena fanciullezza. Ma nel 1920 tutto cambia: il padre viene trasferito definitivamente a Catania in via Pastore nel quartiere di San Berillo, la sua vera patria di affetti, amore e cultura: qui si forma il suo destino di uomo, intellettuale, scrittore ed inizialmente un fascista convinto.
A Catania terminò i suoi studi liceali, si iscrisse alla facoltà di Lettere e cominciò a scrivere. Il 4 febbraio
1924 si iscrisse al partito fascista fino al 1933-36 quando si rese pienamente consapevole che tutta la
retorica, l’Impero, la demagogia di Mussolini e dei gerarchi in camicia nera, non erano altro che il frutto di
un mondo falso ed ipocrita, una sorta di oscurantismo del pensiero intellettuale di chi aveva lo scopo di
mascherare “la noia dei tempi!”.
Intanto nel 1929 si laureava con il massimo dei voti e la lode discutendo una tesi su Federico De Roberto, altro catanese d’adozione. Subito dopo partì per Roma con altri letterati:
Francesco Lanza, Ercole Patti, Nino Savarese, collaboratori del “Lunario Siciliano”, che si stampava nella
redazione del quotidiano “Il Tevere”, diretto da un altro siciliano: Telesio Interlandi.
Ma la svolta della sua vita sarà nell’anno 1936- ’37, in cui quale vincitore del concorso a cattedra di italiano, latino e storia, andò ad insegnare all’istituto magistrale di Caltanissetta, dove, quale studente, c’era Leonardo Sciascia. Nell’anno scolastico ’38-’39 viene trasferito a Catania al Regio Istituto Magistrale, che poi sarà il “Turrisi Colonna”.
Nel 1940 tornò a Roma, dove scrisse il “Don Giovanni in Sicilia”, che, come disse Arnaldo Bocelli, la
“sicilianità” rimane in equilibrio tra la sua che è prevalentemente psicologica nutrita di succhi cinici e di
esperienze o memorie autobiografiche e quell’altra sicilianità di tradizione letteraria che va da Pirandello a
Vittorini.
Ivi conobbe Anna Proclemer “…una ragazza trentina volse verso di me il bellissimo volto in cui
due grandi armoniosi sopraccigli segnavano il termine fra una dolcezza sconsolata e una calma genialità…”.
Tornato a Catania molto spesso si recava in villeggiatura a Zafferana, dove nel luglio del’ 43 apprese dello sbarco degli Alleati in Sicilia, dei combattimenti furiosi nella piana di Catania, al Simeto, e poi l’entrata degli inglesi in piazza Duomo. In una lettera di Ercole Patti, suo grandissimo amico, c’è scritto:… "per te, carissimo, la guerra è finita. Io sono qui a Roma sotto il torchio dei tedeschi!".
Brancati scrisse moltissimo, ma quali sono le opere più importanti? Dopo “Don Giovanni in Sicilia”, a nostro
sommesso parere, “Il bell’Antonio” è il romanzo che ci fa capire profondamente l’indole dello scrittore, la
sua ricerca si basa nell’indagare il costume e la dimensione dell’ambiente catanese di un piccolo mondo
borghese, che vive in un totale disimpegno esistenzialista del protagonista, la cui impotenza sessuale è
direttamente proporzionale alla sua bellezza fisica del tutto esteriore e senza qualità.
L’altro bellissimo libro “Paolo il caldo” è il rovescio della medaglia: il tono è mutato, la potenza sessuale della famiglia Castorini è il simbolo di una società decadente, che soffre, si agita, si contorce su se stessa fino al disgusto, che obbliga il personaggio a recitare il Pater noster per un profondo cambiamento dell’anima, che, a parer nostro, non ci sarà. Ma il successivo romanzo, mai scritto, per quel 25 settembre 1954, sarebbe stato il compimento finale della sua “grande opera”, “del libro perfetto”, a conclusione, se mi è permesso, di una carriera letteraria splendida sotto ogni punto vista: come Manzoni, Verga, De Roberto, Moravia, Sciascia, Pasolini…